Un solo luogo, mille Storie, Tanta Vita.

Vi racconto la panoramica di Siracusa!

Quella che sto per raccontavi non è la storia di un personaggio in particolare, o delle sue epiche imprese. Si tratta semplicemente di alcuni ricordi del vissuto di un bimbo legati a una quotidianità che viveva gli albori di uno sviluppo sociale.

Inizi degli anni ‘60, quando il mangiadischi rappresentava il top della tecnologia stereofonica ed  echeggiava le canzoni di Adriano Celentano, Nico Fidenco,  Claudio Villa, ricordo che i miei genitori, negli assolati pomeriggi estivi, solevano di tanto in tanto trascorrere sereni momenti all’aria aperta e godere della frescura serale dopo le intense giornate di sole. 

Mio padre, ritirandosi dal lavoro nel pomeriggio non più tardi delle sedici, decideva con mia madre di impiegare la serata fuori casa e così molto velocemente si preparava la cena per la famiglia a base di  insalata di lattuga e pomodoro fresco, pane di casa, aranciata composta da un insaporitore colorante in fialetta di vetro e bustina per renderla frizzante e l’immancabile anguria rossa. Per noi bambini c’era la “manuzza” all’interno della quale spalmare un preparato di colore rosa e bianco che avrebbe dovuto dare sapore di fragola e crema.

Cena pronta e merenda in busta, mangiadischi con le batterie cariche con i quarantacinque giri nelle custodie di carta, pallone da calcio (rigorosamente di plastica ne esistevano solamente di tre tipi colorati: bianconero, nerazzurro e rossonero), caricate sul portabagagli a tetto della macchina le sedie di legno pieghevoli, tavolino e tovaglia a colori con disegni di paesaggi di praterie e cavalli, si partiva per andare a trascorrere una serata a dir poco straordinaria. 

A proposito della macchina, un piccolo inciso: quella maggiormente in uso nelle famiglie di ceto medio era la Mitica “FIAT SEICENTO” a due sportelli,  il colore più diffuso era il verde oliva e la targa, quella del mio papà, era SR 12.104, e così io la chiamavo per nome: la dodicicentoquattro.                                            

Tutti a bordo, girata la chiavetta sul cruscotto, sollevata la levetta della messa in moto posizionata fra i due sedili anteriori ed ecco che il rombo del motore faceva salire a me e mio fratello l’adrenalina del viaggio. La prima cosa che ricordo era che ci voltavamo sul sedile rivolti verso il lunotto posteriore dove fra la spalliera e il vetro c’era un ripiano orizzontale dove di solito veniva riposto un cane di plastica che muoveva la testa a seconda dei sobbalzi della vettura, che toglievamo con estrema cura, altrimenti se lo rompevamo erano guai da sculacciate di quelle serie e lì facevamo le gare con le nostra macchinine di latta, una i ladri e una la polizia. Si attraversava la città con ancora poche costruzioni, Piazza Adda campo per pecore a confine con la Ferrovia, Corso Gelone (una macchina ogni tanto), il campo Pippo Di Natale un terreno incolto e Viale Paolo Orsi da dove iniziava la grande e tortuosa salita che conduceva alla meta: “LA PANORAMICA” 

Un grande spiazzo dove parcheggiare le macchine e il largo marciapiede dove erano collocate le panchine con la lunghissima ringhiera parapetto da dove si scorgeva un panorama stupendo che abbracciava il parco archeologico immediatamente sotto, L’orecchio di Dionisio, il Teatro Greco, l’Anfiteatro Romano.

Più avanti la città, il porto, la Penisola della Maddalena, i Monti Climiti e in fondo alla vista il mare e lontanissima la costa del pachinese.

Lo spettacolo era grandioso e io, abituato a vedere soltanto il marciapiede di fronte a casa, restavo affascinato nell’osservare quello spettacolo  della natura assolutamente straordinario.

Il mio sguardo scorgeva l’orizzonte infinito e il sole, che volgeva al tramonto iniziava a tingere di rosso arancio il cielo che da lì appariva immenso.

Nel frattempo mio papà che stringeva rapporti con un altro papà sistemava su un po’ di spazio tavoli riuniti e sedie, parlando di lavoro e tempo libero, mentre  mia mamma e l’altra signora passeggiando lungo il marciapiede chiacchieravano e socializzavano osservando sempre noi bambini che stringevamo amicizia e ci scatenavamo a giocare al pallone con gli altri bambini che si aggregavano a noi, formando le squadre che nascevano al momento, senza che nessuno conoscesse qualcosa dell’altro, perché il nostro nome non era importante: ci si definiva “cosaaa” l’appartenente all’altra compagine, e “mbareee” il compagno della propria. Le famiglie che si recavano alla panoramica con la nostra stessa intenzione non perdevano tempo in convenevoli, il saluto era sufficiente nella condivisione del momento, ponendo a offerta il preparato che si era portato da casa e avviando nuovi rapporti sociali senza formalizzare nulla di più che il semplice saluto. Le serate si concludevano con quella serenità e simpatia nate così, nella semplicità di un saluto e nella condivisione di un momento comune che vedeva persone assolutamente sconosciute trasformare un rapporto in amicizia talvolta anche duraturo nel tempo.

La serata si concludeva non prima di esserci divertiti a piazzare a turno il ditino sul beccuccio della fontanella sistemata alla fine del marciapiede e, giocando come già sapevamo, ci “sgricciavamo” l’acqua che facevamo schizzare fuori dalla fontana. Le 22.30 ed era arrivato il momento di andare via; si rimetteva in macchina quello che era servito per trascorrere la serata, saluti affettuosi e promesse di rivedersi ancora e così il ritorno sulla via di casa, ripercorrendo, stavolta in discesa, la buia strada dell’andata; da lì, osservavamo con mio fratello oltre il guard-rail la campagna con installati a intervalli alcuni faretti a forma cilindrica arrotondati in sommità alti circa un metro (ancora visibili ma non funzionanti) rivestiti di ghiaia che proiettavano sullo sfondo una suggestiva luce bianca che si rifletteva sui reperti rocciosi ai lati della strada: visti dalla macchina, davano l’impressione di emanare la stessa cromatura delle televisioni in bianco e nero dell’epoca e mio papà, per farci stare buoni in macchina diceva: “vedete quelle luci bianche? Sono delle televisioni, se fate i bravi ci fermiamo e vi faccio vedere la tv”  e così io e mio fratello speranzosi di poter concludere le serate con la tv (noi ancora a casa non l’avevamo) rimanevamo fermi e zitti, ma puntualmente la stanchezza dei giochi e il buio ci coglievano in un sonno profondo e così tutto veniva rimandato alla prossima gita.

Il tempo passava e noi adolescenti oramai tra i quattordici e i quindici anni tornavamo a ripercorrere quelle strade ma stavolta da soli, o meglio in compagnia delle nostre fidanzatine che timidamente, dopo ore e a volte giorni di preparazione psicologica, riuscivamo a convincere a salire a bordo dei nostri scooter ovvero, l’indimenticabile “CIAO” della Piaggio, o per chi aveva i genitori con maggiore disponibilità economica la grandissima “VESPA 50”.

Ebbene sì, i pomeriggi tra le sedici e le diciassette e trenta (non di più) avevamo raggiunto questo privilegio e noi salivamo su quella impervia salita della panoramica per trascorrere quel frangente di tempo, ma stavolta con una ragazza. Parcheggiavamo lo scooter, inserivamo la catena con il lucchetto alla ruota posteriore e iniziavamo a passeggiare su e giù per quel marciapiede tenendoci vicini al parapetto per ammirare quello spettacolo che la natura ci offriva; nel frattempo parlavamo, parlavamo tantissimo, di noi dei nostri progetti, delle nostre crisi e poi, con la delicatezza di un cristallo ci accingevamo a tener per mano la nostra unica e bellissima fidanzatina, quasi timorosi di infrangere quel piccolo e fragile arto, ci sedevamo sulla panchina per poterci guardare negli occhi sussurrandoci le dolcissime parole “ti voglio bene”.

Grazie Panoramica

Tratto dal racconto di Marcello Arrisicato